Oggi la Chiesa ricorda San Romualdo (Ravenna, ca. 953-Val di Castro (Marche) 1027). Di famiglia nobile (nato a Ravenna da famiglia ducale) dedicò quasi tutta la sua esistenza alla fondazione della vita eremitica, peregrinando in molteplici luoghi, sempre insoddisfatto dei risultati raggiunti e sempre in cerca di poter esprimere al meglio il suo amore per Gesù, in un ambiente austero, lontano dal mondo. Queste le tappe principali della sua peregrinazione. Intorno al 953 divenne monaco nel monastero di Sant'Apollinare in Classe nella sua stessa città. Insoddisfatto della vita che vi si conduceva, spesso coinvolto nei contrasti tra le nobili famiglie cittadine, dopo 3 anni, Romualdo decise di lasciare il monastero per seguire un eremita di nome Marino, che viveva nell'area lagunare veneta: un uomo pio, ma poco dotato della virtù della discrezione nella pratica della vita eremitica. I due asceti si trasferirono a Venezia, dove la personalità di Romualdo godeva di grande stima. Intorno a lui si costituì ben presto un piccolo gruppo di uomini distinti dalla società. A Romualdo e Marino si unì lo stesso doge Pietro Orseolo I, che lasciò la carriera politica attratto dalla vita solitaria. Altri due nobili veneziani, Giovanni Gradenigo e Giovanni Morosini ne seguirono l'esempio. Quando, nel 978, giunse a Venezia Guarino, abate di San Michele di Cuxà, il famoso monastero dei Pirenei orientali, il piccolo gruppo dei veneziani lo seguì. Fermatosi in una cella eremitica presso il monastero si dedicò insieme al Gradenigo ai lavori manuali e divenne esperto della vita ascetica, e dal gruppo dei veneziani fu riconosciuto come maestro senza tuttavia assumere il ruolo formale di abate. Dopo dieci anni la feconda esperienza di Cuxà fu interrotta: da Ravenna giunse notizia che il padre di Romualdo, Sergio, che dopo la partenza del figlio aveva abbracciato la vita monastica, ora stava per abbandonarla. Il santo ritornò in Italia da solo, e costrinse il padre a rientrare nel monastero di San Severo in Classe, mentre gli altri compagni si diressero verso Montecassino. Da allora Romualdo trascorse la sua vita eremitica in varie località: prima nella palude di Classe, e poi in eremi che si scelse nell'appennino umbro-marchigiano; ma nel contempo fondando o riformando anche monasteri di cenobiti, presso i quali, a volte fissò la propria dimora senza peraltro entrare a far parte della comunità. Una pausa in questo suo stile di vita si ebbe, quando ritornato all'eremitismo lacunare, venne ad icontrarlo, nell'isola del Pereo a 15 Km. da Ravenna, in cui si era rifugiato, il giovane imperatore Ottone III, che lo voleva suo collaboratore nella riforma della Chiesa che stava intraprendendo, e per questo lo volle abate di Sant'Apollinare in classe. Dopo 2 anni, tuttavia, non avendo ottenuto i risultati sperati, rimise il mandato nelle mani dell'imperatore e riprese il peregrinare, dirigendosi questa volta verso Roma e l'Italia meridionale. A Roma incontrò Bruno di Querfurt, cappellano dell'imperatore, il quale, con altri personaggi della corte, seguì Romualdo nell'isola del Pereo, per vivere sotto la guida discreta di Romualdo. Scrisse San Pier Damiani: "Chi mai non sarebbe stato colpito, chi non avrebbe glorificato la potenza di Dio, alla vista di questi uomini fino a ieri vestiti di seta e di oro, pieni di agi, abituati a tutte le raffinatezze, ed ora con il saio, in clausura, scalzi, sporchi, consumati dal digiuno?"
Un giorno ritornò nell'isola l'imperatore Ottone III con un'altra richiesta. Il duca di Polonia chiedeva a Romualdo di mandargli alcuni fratelli per condurre vita solitaria nelle foreste dell'Est, e nello stesso tempo per essere testimoni del Vangelo tra le tribù ancora pagane. Romualdo, per quanto rattristato dalla partenza di due monaci, Giovanni e Benedetto, che si erano subito offerti, li lasciò partire, temendo che non sarebbero più tornati. Ed in effetti, dopo due anni, l'11 novembre 1003 furono assassinati e stessa sorte toccò a Bruno nel 1009, dopo che aveva scritta una "Vita dei cinque fratelli" in memoria dei suoi compagni uccisi. Per quanto sfiorato dalla inclinazione ad evangelizzare i pagani, Romualdo decise di perseverare nel suo tradizionale stile di vita. La sua regola, non fissata in norme giuridiche, secondo un suo discepolo era questa: "Siedi in cella come in paradiso. Dimentica e gettati dietro le spalle tutto il mondo, vigile e attento ai buoni pensieri come un buon pescatore ai pesci. Unica via il Salterio: se tu che sei novizio non puoi capire tutto, ora qui ora là, cerca di salmeggiare in ispirito e studiati di intendere con la mente; e quando nel leggere cominci a divagarti, non smettere e non perderti d'animo, ma cerca di riparare con il richiamare l'attenzione. Mettiti innanzi tutto alla presenza di Dio, perchè se la mamma non dona, non c'è da mangiare ed il cibo non ha sapore". Romualdo si mantenne fedele a questo programma. Dopo un breve soggiorno ad Istria nel corso del quale ebbe alcune esperienze mistiche (dono delle lacrime, comprensione di alcuni segreti scritturali, unione mistica nella preghiera) finalmente nel 1023 raggiunse la tappa culmine della sua vita fondando a Camaldoli, nel territorio di Arezzo, alcune celle eremitiche. A questo eremo ben presto affiancò un ospizio che in seguito diverrà un vero e proprio cenobio a protezione dell'eremo. Successivamente il Beato Rodolfo (1074-1089) quarto priore ell'eremo, redasse il primo corpo legislativo di quella che poi divenne la Congregazione camaldolese. Ancora oggi esistono i Padri Camaldolesi ed attualmente risultano promotori di varie attività, fra le quali spicca, nella novità del concilio Vaticano II (documento "Nostra aetate"), la promozione del dialogo ebraico-cristiano.
Intanto il nostro santo Romualdo continuò le sue peregrinazioni e giunto al monastero di Val di Castro solo ed in silenzio nella sua cella morì il 19 giugno del 1027.
Sulla tomba di Romualdo a Val di Castro fu eretto un altare, e molti venivano a venerare le reliquie del singolare profeta di Dio. Nel 1140 il corpo del santo fu inumato in un sarcofago della Chiesa camaldolese di San Biagio di Fabriano, dove si conserva tuttora.
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